sabato 4 febbraio 2017

Finlandia 2017: primo esperimento di reddito di cittadinanza

Esperimento a Helsinki sul reddito di cittadinanza. A duemila disoccupati 560 euro al mese per due anni


Nel bar circondato dalla neve sottile al numero uno di Bulevardi, non lontano dal porto e dalle vie dei negozi di alta moda che circondano il Decumano Massimo, la trentunenne disoccupata Sini Marttinen è decisa a difendere con tutta se stessa la dignità del suo privilegio. «Perché privilegio? Non è vero che mi pagano per non lavorare. Mi pagano per cercare un lavoro». Attorno a lei un brusio di voci, fette di torta al cioccolato e musica pop inglese.


E se non lo trovi un lavoro, Sini? «Mi pagano lo stesso». Godendosi l’effetto che fa l’ultimo trucco del meraviglioso Grande Nord. «So che non è facile da capire. Ma così posso concentrarmi su ciò che voglio davvero, evitando di restare impantanata nella burocrazia. Non peso sui miei connazionali. Li aiuto a crescere». E qui è necessario un passo indietro.

Sini, laureata in Economia a Edimburgo, era un’imprenditrice impegnata nel campo delle consulenze. Con la crisi il suo lavoro è sparito e lei si è sentita come un vascello rimasto bloccato a lungo su un fiume di pietre, finché l’onda alta di un nuovo mondo l’ha sollevata dal fondale. Bello. Ma quale nuovo mondo?

Il nuovo mondo

Per salvare il sistema di welfare più sofisticato del pianeta, abbattere la burocrazia e spingere nuove e vecchie generazioni a confrontarsi con un mercato del lavoro schiacciato dalla globalizzazione, spaventato dalla robotizzazione tracimante e dunque sempre più avaro, flessibile e complicato, il governo finlandese di centrodestra, guidato dal milionario Juha Sipila, ha deciso di fare una cosa di cui si parla da cinquecento anni ma che nessuno aveva mai provato su scala nazionale e per un periodo di tempo così esteso: varare il reddito di cittadinanza. Suona familiare?

Un esperimento di due anni, iniziato il primo gennaio, che garantisce a 2000 disoccupati, scelti in modo casuale, un’entrata mensile di 560 euro esentasse. Sini è tra loro.

Il denaro va a sommarsi agli altri benefici che lo Stato garantisce a chiunque. E continuerà ad arrivare anche se i fortunati estratti a sorte troveranno un posto o apriranno un’azienda individuale. «Ho perso solo il sussidio di disoccupazione, che era comunque ottanta euro più basso e mi veniva ridotto anche se trovavo lavori part time», dice Sini. Una rivoluzione, insomma

Ma i costi di questa operazione sarebbero sostenibili moltiplicati per i 5 milioni e mezzo di abitanti della Finlandia? E che cosa succede se chi riceve il contributo non ha lo spirito imprenditoriale di Sini e preferisce spendere il denaro in vodka e salmone?

La «Kela» del ragno

«Lei ha idea di quanto tempo e di quante persone ci vogliano per tenere sotto controllo tutto questo?». In effetti no. «Beh, tante». Marjukka Turunen, energetica responsabile dell’ufficio legale della Kela, una specie di Inps finlandese, però più complesso, appoggia i gomiti sul tavolo della sala riunioni del palazzone disegnato da Alvar Aalto, una discutibile via di mezzo tra l’architettura di Krasnodar e l’Ikea. «Nessuno nel Nord Europa ha un sistema di benefits paragonabile al nostro», insiste. E quando dice «nel Nord Europa» intende dire nel mondo, tanto meno i cugini svedesi


Lo Stato pretende tasse che possono arrivare al 60% (e una donna di servizio può costare 35 euro l’ora, mentre un professore universitario a contratto ne riceve 70 di cui 49 destinati all’erario) ma in cambio si preoccupa di ogni singolo dettaglio esistenziale. Asilo, scuola, università, ospedali, riabilitazioni, alloggi, assicurazioni, disabilità, trasporti, pensioni. 

Vite custodite in 40 diversi modi con un investimento che balla tra i 13,4 e i 14,5 miliardi di euro l’anno a seconda del livello della disoccupazione.

«Uno sforzo eccezionale, ma il sistema va rivisto perché fu pensato negli Anni Sessanta, quando le donne stavano a casa con i bambini e i mariti non avevano problemi a trovare uno stipendio. Le persone non si rendono conto di quanto sono protette. Vanno dal medico, non pagano e credono che sia normale. Lo è. Ma non è semplice». Così la domanda che circola tra chi si oppone al reddito di cittadinanza è ovvia: ripensare il welfare significa smantellarlo? «No. Lo stato sociale è costituzionalmente garantito. Ma oggi il nostro welfare è come un puzzle. La burocrazia è soffocante e le persone cominciano a essere scontente».

Ogni quattro settimane i disoccupati compilano un modulo per aggiornare la propria situazione, comunicando anche se hanno trovato lavoro per pochi giorni. Ogni entrata abbatte il sussidio. Perciò molti rifiutano il lavoro per salvaguardare il più vantaggioso aiuto statale. È vero che chi non accetta un impiego viene sospeso dal beneficio per sei settimane, ma la Kela non è in grado di sapere quante sono le occasioni professionali offerte dai privati. «Credo sia difficile immaginare il reddito di cittadinanza per tutti dopo il 2018. Abbiamo calcolato che il costo del nuovo welfare sarebbe di circa 15 miliardi e dunque non è il denaro il problema più importante. Sarebbe però un cambiamento radicale, le cui conseguenze oggi sono imprevedibili. Lo scontro politico sul tema è molto forte, alimentato da chi ritiene ingiusto dare soldi a chi non si impegna in qualche modo, e questi 24 mesi saranno importanti per capire come reagiranno le persone e il mercato»

La sfida politica

Rimasti inconsciamente ancorati a un’idea da socialismo reale Anni Ottanta, con capacità tecnologiche da Silicon Valley, spaventati dall’improvviso arrivo (per quanto davvero in modica quantità) dell’immigrazione orientale, con una disoccupazione vicina all’8% (la più alta nel Nord Europa), e una generazione di giovani iper-qualificati e iper-tecnologizzati messa in ginocchio dalla crisi della Nokia che solo adesso il Paese comincia a superare, i finlandesi due anni fa si sono affidati a una coalizione della quale fanno parte il partito di Sipila, il Partito di Coalizione Nazionale e soprattutto gli ultranazionalisti Finlandesi, che fino a pochi mesi fa si chiamavano Veri Finlandesi. Poi gli elettori degli altri schieramenti hanno fatto notare che erano «veri» anche loro.

Parlando di questi figli del Novecento, per cui la mancanza di nostalgia sarebbe la prova inconfutabile dello scarso valore della loro vita passata, Petri Burtsov, giornalista della tv pubblica Yle, per quattro anni corrispondente in Italia, dice: «I Finlandesi sono euroscettici e populisti, ma non hanno niente a che vedere con i 5 Stelle. Rimpiangono la Finlandia degli Anni Ottanta quando tutti avevano un lavoro e una casa». La loro visione è opposta a quella di Grillo. E diverso è l’elettorato. «I sostenitori dei Finlandesi sono anziani, conservatori con un forte senso religioso, vengono dalle campagne e non usano i computer». Eppure, in questo mondo rovesciato, in cui le fasce deboli si appoggiano alle destre vecchie e nuove e le sinistre sono incapaci di tutelare i salari, i (Veri) Finlandesi sperimentano il reddito universale mentre i sindacati lo combattono. «Per vent’anni i governi socialdemocratici si sono baloccati con l’idea del reddito universale, evitando però di realizzarlo per non infastidire i sindacati, che fondano parte della loro potenza sulla gestione delle assicurazioni di chi perde il lavoro», dice Burtsov. E Heikki Hiilamo, professore di politiche sociali all’Università di Helsinki sembra confermare la sua tesi quando dice: «Molti giovani di questo Paese sono rimasti prigionieri della trappola degli incentivi. Per paura di perderli si sono guardati dal cominciare nuove attività». Così il mercato li ha marginalizzati. E ci è voluto un governo di destra per riaccendere un faro su di loro.

Trump e globalizzazione
Nel suo studio di Meritullinkatu 8, Pirkko Mattila, ministra della Salute e degli Affari Sociali, eletta con i Veri Finlandesi, si sistema gli occhiali e analizza con calma i dati della Kela. «Sappiamo che qualcuna di queste duemila persone ne approfitterà. Ma la maggioranza di loro si darà da fare per trovare un posto. Il punto non è smantellare lo stato sociale, ma ridurre la burocrazia e immettere più persone sul mercato del lavoro. Il nostro sistema pensionistico regge. Ma la popolazione invecchia e la capacità professionale delle nuove generazioni è decisiva. Anche noi dobbiamo abituarci alla parola flessibilità». Alla flessibilità i giovani finlandesi sono abituati da tempo - gli ultraquarantenni meno, figurarsi i cinquantenni - ma qui il dubbio è che si vada verso un futuro in cui il lavoro è destinato a sparire. «Il lavoro ci sarà sempre. L’uomo non può farne a meno, anche in un pianeta globalizzato», giura Mattila. Si alza per salutare. Scusi ministra, a proposito di globalizzazione, le piace Trump? Ci pensa un istante. «Non spetta a me il giudizio. É stato eletto democraticamente. Noi siamo diversi. Però non credo che in un mondo così interconnesso si possa immaginare di chiudersi commercialmente nei propri confini». Buffo. Un universo conservatore, antitrumpiano, antieuropeo, ossessionato dai 1300 chilometri di confini con la Russia, che ha voglia di guardare fuori ma fatica a lasciarsi guardarsi dentro. Noi funzioniamo, voi ci fate paura. Un grande classico. Il primo esperimento di reddito di cittadinanza è nato così. Con la grazia sfuggente e irresistibile dell’ombra che passa sull’acqua gelida della baia, senza lasciare capire a nessuno dove si poserà

http://www.lastampa.it/2017/02/04/esteri/pagati-per-cercare-lavoro-cos-la-finlandia-riscrive-le-regole-dello-stato-sociale-9wcpzqTWPkSillAOogxTTO/pagina.html


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